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Enti locali: tracciabilità degli affidamenti a enti del terzo settore
In una recente risposta all'interrogativo di un Comune il Dottor Andrea Bufarale fornisce chiarimenti sugli obblighi di tracciabilità dal 1° settembre, per gli Enti locali, sugli affidamenti a enti del terzo settore.Questo Comune ha in corso diverse attività con enti del terzo settore. A seguito dell'entrata in vigore degli obblighi di tracciabilità anche per tali casistiche dallo scorso 1° settembre (Delibera 27 luglio 2022 n. 371 dell'ANAC) come dobbiamo comportarci per gli affidamenti già in essere?
La citata Del. 27 luglio 2022 n. 371 dell'ANAC ha fornito un importante aggiornamento delle linee guida sulla tracciabilità dei flussi finanziari, prevedendo l'applicazione della normativa sulla tracciabilità dei flussi finanziari anche agli istituti disciplinati dagli artt. 55-58, D.Lgs. 3 luglio 2017 n. 117 (Codice del Terzo Settore), estranei rispetto al D.Lgs. 18 aprile 2016 n. 50.Nello specifico, pertanto, a seguito di tale delibera, è entrato in vigore l'obbligo di tracciabilità dei flussi finanziari per i servizi sociali, socio-sanitari e sanitari erogati dagli Enti del Terzo Settore con le seguenti modalità:- co-programmazione e co-progettazione- convenzioni con enti di volontariato- accreditamento.Tanto ciò premesso, da un punto di vista formale il mancato rispetto della normativa in tema di tracciabilità comporterebbe conseguenze di tipo civilistico sul contratto stipulato, quali la nullità o la risoluzione dello stesso, nonché sanzioni amministrative a carico del soggetto inadempiente (art. 3 commi 8, 9 e 9bis e art. 6, L. 13 agosto 2010 n. 136).L'impatto organizzativo e gestionale di questo ennesimo aggiornamento si rileva significativo e per tale ragione, considerata anche una certa lacunosità delle disposizioni emanate con la richiamata deliberazione dell'autorità, possiamo suggerire di procedere operativamente mediante una programmata attività di recupero dei CIG e dei dati relativi ai conti correnti dedicati per gli affidamenti in essere, ovvero procedere all'acquisizione dei CIG e della relativa documentazione ulteriore in caso di nuovi affidamenti o di rinnovi.
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Arriva l'anagrafe dei dipendenti pubblici
Disco verde della Conferenza Unificata al decreto, emanato nel febbraio scorso, che disciplina il funzionamento dell'Anagrafe dei dipendenti pubblici. Il decreto è frutto di un lavoro a più mani: Dipartimento della Funzione pubblica, ministero dell'Economia e delle finanze, Dipartimento della Trasformazione digitale e Regioni. Con il via libera a questa riforma, che marcia da almeno 5 anni (il primo progetto elaborato dal ministro Madia si fermò dopo pochi mesi), si aprono così le porte a un'altra innovazione prevista dal Pnrr nell'ambito della riforma attuata dal ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. Una innovazione che sarà di fondamentale importanza per il settore pubblico.
La riformaIstituita presso il Dipartimento della Funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, l'anagrafe sarà costruita a partire dai dati già disponibili presso il sistema NoiPA del ministero dell'Economia, che garantisce il calcolo dei cedolini di circa 1,9 milioni di dipendenti pubblici. Per il restante personale, sarà l'Inps a fornire le informazioni che le amministrazioni periodicamente trasmettono per gli obblighi contributivi. L'Anagrafe servirà per capire quali sono le risorse umane e professionali presenti all'interno della Pubblica amministrazione e per favorire i processi di sviluppo delle competenze e di reclutamento. Per ridurre al minimo i costi e i tempi di realizzazione, i dati anagrafici dei dipendenti saranno validati dall'Anagrafe nazionale della popolazione residente (Anpr), mentre quelli sugli incarichi conferiti ai dipendenti pubblici saranno acquisiti direttamente dalla banca dati già disponibile presso il Dipartimento della funzione pubblica. L'Anagrafe dei dipendenti pubblici sarà propedeutica alla realizzazione del fascicolo elettronico del dipendente, che a regime sarà integrato con i dati acquisiti dal portale inPA e conterrà le informazioni sul percorso professionale di ogni lavoratore pubblico, dalla formazione alla mobilità.Il censimentoGrazie a questa operazione, di fatto, si avvia il censimento anagrafico permanente dei 3 milioni e 200 mila dipendenti pubblici italiani, utilizzando a tal scopo la base di dati del personale del comparto pubblico del Ministero dell'Economia e Finanze, che al momento offre invece solo dati abbastanza scarni: età, ruolo e data di assunzione. Si tratta, ovviamente, di obiettivi inclusi nel Pnrr e in particolare nella Missione M1C1, il cui raggiungimento dovrebbe consentire di avere una fotografia sempre aggiornata della pubblica amministrazione italiana anche in vista del suo ringiovanimento attraverso nuovi ingressi mirati. Sul versante del reclutamento, peraltro, si è già agito in termini di digitalizzazione con il varo del portale InPA nell'agosto dello scorso anno, poi presentato ufficialmente nel mese di novembre 2021. In pratica, l'Anagrafe dei dipendenti pubblici chiuderà il cerchio di una riorganizzazione digitale della Pubblica Amministrazione e fa da contraltare al recente completamento dell'Anagrafe della popolazione residente.
Mariano Corso: «Nella Pa è fuga dallo smart working, le amministrazioni non sanno sfruttarlo»
Lo smart working migliora la performance del lavoratore, diminuisce lo stress, può attrarre nella Pubblica amministrazione i giovani talenti migliori, ed è anche una scelta green ed economica. Parola di Mariano Corso, Responsabile scientifico dell'Osservatorio Smart Working della School of Management Politecnico di Milano, che alla domanda sul perché, oggi, nella Pa si tenda invece a voler far tornare tutti in presenza, spiega: «Perché quello che è stato applicato finora non è stato vero smart woring. E non se n'è capito il potenziale, in controtendenza con il settore privato. Professore, a che punto è lo smart working in Italia?«Partiamo da un dato di fatto. Lo smart working, sicuramente nel mondo privato, specie della grande impresa, è un modello ineludibile che le organizzazioni hanno intenzione non solo di mantenere, ma anche di consolidare. E questo emerge chiaramente dalle ultime rilevazioni che abbiamo fatto, che presenteremo a fine mese, e che parlano, per le grandi imprese private, di numeri molto vicini a quelli che sono stati raggiunti nel picco della pandemia» . In molte aziende private, quindi, la forma di lavoro prevalente...«Sì. Questo tipo di modello è in una fase di consolidamento: veniva utilizzato pre-pandemia da 600mila lavoratori, oggi siamo tra i 3 e i 4 milioni di lavoratori» . Perché allora nella Pa si sta andando nel verso opposto, con lo stesso ministro che ha più volte esortato a tornare in presenza a lavoro?«Perché, come in altri casi, lo smart working è stato considerato come una misura emergenziale e non si sono visti i potenziali benefici di un'applicazione a regime. E questo perché? Perché, in molti casi, lo smart working è stato applicato in modo parziale e sbagliato» . Cioè?«Lo smart working è un modello organizzativo che ha come obiettivo quello di passare a una maggiore responsabilizzazione del lavoratore sui risultati, dunque a un lavoro per obiettivi, e a una maggiore attenzione al miglioramento della performance. Per fare questo si dà una maggiore autonomia e flessibilità al lavoratore in termini di scelta del luogo di lavoro, in termini di orari e gestione degli orari di lavoro e di strumenti manageriali. Lo smart working vero passa da un accordo individuale e non è un diritto, non è un contratto, men che meno collettivo, ma è una possibilità che viene offerta al lavoratore, che se sceglie di prendersi questa autonomia, deve scegliere anche di raggiungere dei risultati» .Un modello molto lontano da quello che abbiamo visto in Italia durante la pandemia...«Quello che è stato fatto da molte amministrazioni, e anche da molte aziende, è stato semplicemente tutti a casa, senza però mettere in discussione il resto dell'organizzazione. Ma se io ti faccio lavorare da casa, ma ti sto controllando nello stesso modo di prima e non lavoro sul modello manageriale, quello non è smart working: sto semplicemente dislocando diversamente, in modo anche un po' disordinato, le postazioni, creando, peraltro, una montagna di stress ai lavoratori. Quello che abbiamo rivelato è che questi lavoratori da remoto, che non sono smart worker, non stanno meglio. Mentre sono decisamente più ingaggiati quelli che fanno realmente smart working» .Qual è stato il problema nella Pa?«La pubblica amministrazione è stato il luogo di lavoro dove, durante la pandemia, c'è stato il salto più significativo: si è passati da 45mila smart workers a un picco di 1 milione e otto durante la pandemia. A fronte di questo, la Pubblica amministrazione è stata piuttosto carente nel passare dalla flessibilità di luogo al cogliere l'occasione, come era nelle intenzioni della riforma Madia, per ripensare il lavoro pubblico, produrre maggiore managerialità, digitalizzazione, rinnovamento, risultati. Tutto questo non c'è stato» . Anzi, con Brunetta si torna in presenza. «Il Dpcm Brunetta afferma che esiste una forma ordinaria di lavoro ed è il lavoro in presenza, e che in ogni caso ci deve essere una prevalenza per tutti i lavoratori di presenza in ufficio. Quindi da quel milione e otto di lavoratori pubblici in smart working durante la pandemia, ora siamo nell'ordine dei 6-700mila. Mentre nelle grandi aziende private si stanno consolidando i numeri raggiunti durante il picco pandemico, nella pubblica amministrazione no».Ci sono evidenze che un utilizzo massivo di smart working vero migliori le prestazioni lavorative?
«La risposta è certamente sì: si aumenta l'engagement dei dipendenti, e in generale, lavorando per obiettivi ognuno è portato a misurarsi e quindi a migliorare i risultati. Inoltre cala l'assenteismo, aumenta la produttività nell'ordine del 15/20%.E poi c'è una riduzione di costi, perché si riduce il costo degli spazi e il costo per l'energia. Insomma, ci sono tutta una serie di elementi di razionalizzazione e ottimizzazione del sistema complessivo che poi vanno a creare il beneficio per il lavoratore, per l'azienda, e per tutta la collettività».
affariitaliani.it
Crisi, lo smart working non conviene più. Gli italiani tornano negli uffici.
Boom di richieste nella pubblica amministrazione, 4 persone su 5 costrette ad abbandonare il lavoro da remoto per riuscire ad arrivare alla fine del mese.
Crisi energetica, lavorare da casa è diventato un costo insostenibile.
Il caro bollette è diventato il primo punto in agenda per il nuovo governo. I costi dell'energia, infatti, stanno diventando insostenibili per famiglie e imprese. Migliaia di aziende annunciano la chiusura e le cose non vanno certo meglio per i privati cittadini. Frena il lavoro agile, gli statali - si legge sul Messaggero - come i dipendenti delle aziende private non vogliono rimetterci economicamente per colpa delle bollette a casa. Nella Pubblica amministrazione i lavoratori ora dicono no allo smart working in assenza di rimborsi per l'energia, segnalano dai ministeri. Allarme pure nelle aziende private, dove gli accordi non sono ancora obbligatori, ma dove spesso non sono previste compensazioni economiche per i rincari dell'energia. L'adesione al lavoro agile nella sua forma ibrida avviene nelle Pa su base volontaria e passa attraverso unIl problema - prosegue il Messaggero - è che gli statali adesso chiedono (senza ottenerlo) una sorta di bonus per coprire parte delle spese legate alle forniture di luce e gas, a fronte del maggior numero di ore che devono trascorrere a casa per effetto dello smart working. Insomma, il lavoro da remoto non conviene più come un tempo. Se da un lato è vero che migliora l'equilibro tra vita privata e lavoro (lo pensa l'80% dei lavoratori stando alle rilevazioni dell'Inapp), abbatte i tempi spesi negli spostamenti (sottolinea il 90% dei dipendenti) e in determinati casi aumenta la produttività (assicura il 66% dei datori di lavoro), dall'altro con il caro energia il lavoro agile sta diventando un lusso che in tanti non possono più permettersi se vogliono arrivare a fine mese.