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rassegna stampa del 7 marzo 2024

agrigentonotizie.it
Otto marzo al palazzo dell'ex Provincia: incontri con le scuole e mostre di Caputo e Romano.

Il palazzo dell'ex Provincia di Agrigento apre le porte per la Giornata internazionale della donna. L'iniziativa s'intitola "Donne, pace e sicurezza" ed è organizzata dal Comitato unico di garanzia del Libero consorzio comunale di Agrigento. Appuntamento nell'aula "Giglia" del Palazzo dell'ex Provincia, in piazza Aldo Moro, venerdì 8 marzo alle 9,30. L'evento, che prevede la partecipazione di alcune classi del liceo classico e musicale Empedocle, dello scientifico Leonardo e del liceo scientifico e delle scienze umane Politi, si aprirà con i saluti del prefetto di Agrigento Filippo Romano, del commissario straordinario del Libero consorzio comunale di Agrigento Giovanni Bologna e della presidente del Cug Maria Antonietta Testone. Seguiranno gli interventi della giornalista Maria Giuseppina Terrasi, del comandante della Compagnia dei carabinieri di Agrigento, il capitano Annamaria Putortì, della presidente dell'Associazione nazionale donne elettrici (Ande) Carola De Paoli e del sottotenente  di Vascello Domenica Annicchiarico. Il titolo dell'iniziativa prende spunto dalla Risoluzione 1325 su "Donne, pace e sicurezza", adottata all'unanimità il 31 ottobre 2000 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Si tratta della prima Risoluzione di questo organismo che esplicitamente menziona sia l'impatto della guerra sulle donne, sia il contributo delle donne per la soluzione dei conflitti e per una pace durevole. La risoluzione riconosce e valorizza il contributo delle donne, fino a quel momento sottovalutato e sottoutilizzato, nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti, nel peace-keeping e nel peace-building.  Nel corso dell'incontro, che sarà preceduto dall'inaugurazione nella Scala reale della mostra di Federico Caputo "Introspezioni di tela, la poetessa Liliana Arrigo reciterà due poesie dedicate alla donna. Per l'occasione l'aula "Giglia" ospiterà anche la mostra fotografica di Federico GS Romano dal titolo "Giorno perfetto".  


LENTEPUBBLICA
Sponsorizzazione della pubblica amministrazione e prelazione: un connubio possibile.
Interessante sentenza del TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 29 gennaio 2024, n. 196. Nella procedura di affidamento di un contratto di sponsorizzazione tecnica, è possibile introdurre il diritto di prelazione in favore del soggetto proponente.
Il tema è di particolare importanza e coinvolge i principi generali sull'attività della pubblica amministrazione. Se è pacifico che la P.A., per perseguire l'interesse pubblico, possa scegliere gli strumenti di diritto privato, avendo la stessa, al contempo, una doppia capacità, pubblicistica e privatistica, ciò però non esclude che comunque ci siano dei limiti a questa generale capacità di diritto privato dell'amministrazione. Un limite è rappresentato dalla cura dell'interesse pubblico. La P.A., infatti, non può concludere negozi che appaiono incompatibili con lo scopo pubblico da essa perseguito.
Quando la Pubblica Amministrazione intende avvalersi di strumenti di matrice privatistica non è assolutamente libera nella sua attività, come invece accade qualora ad agire sia un privato. La P.A. infatti, quando agisce iure privatorum deve necessariamente rispettare delle procedure formali rigide e tassative. Il rispetto di tali procedure deriva sia dall'interesse pubblico che sottende l'attività della Pubblica Amministrazione sia dall'utilizzo di risorse pubbliche da parte della P.A. in sede di esercizio dei propri poteri. Tali circostanze, oltre a differenziare l'attività iure privatorum della P.A. rispetto a quella dei privati, giustificano il rigoroso rispetto di procedure formali da parte delle amministrazioni pubbliche. L'attività negoziale del contraente pubblico viene così procedimentalizzata assumendo quel carattere di specialità che la distingue dall'attività negoziale del contraente privato, libera nelle forme e nelle procedure.
Sponsorizzazione della pubblica amministrazione e prelazione
La questione affrontata dai giudici lombardi riguarda la prelazione, istituto di diritto privato che consiste nel diritto di essere preferiti ad altri nella conclusione di un contratto; le parti possono stabilirlo convenzionalmente (prelazione volontaria) o, in altri casi, è previsto dalla legge (prelazione legale), con garanzie più preganti a favore del prelazionario. In materia di contratti pubblici, il diritto di prelazione è previsto dall'articolo 193, comma 8, dell'attuale codice dei contratti pubblici ed è relativo al procedimento della finanza di progetto.
Nel caso in esame, una stazione appaltante comunale aveva previsto, nella lex specialis di una gara avente ad oggetto l'affidamento di un contratto di sponsorizzazione tecnica, un diritto di prelazione in favore del proponente sponsor.
In particolare, la parte ricorrente contestava l'incompatibilità dell'introduzione del diritto di prelazione tra le disposizioni di gara con il principio di legalità dell'azione amministrativa, in quanto una siffatta possibilità non era prevista nella procedura delineata dalla legge, ossia dall'art. 19 del D. Lgs. n. 50/2016.
In via preliminare, il Collegio ha esaminato l'art. 19 del vecchio codice dei contratti pubblici, individuando nella scarna disposizione un iter snello ed estremamente semplificato, disancorato dall'osservanza della minuziosa regolamentazione dettata per il contratto di appalto, ma pur sempre improntato all'osservanza dei principi generali di imparzialità e di parità di trattamento fra gli operatori che abbiano manifestato il proprio interesse all'esito della pubblicazione dell'avviso. Ciò implica, ad avviso del Collegio, che l'affidamento dovrà essere preceduto da un inevitabile confronto dei progetti presentati, sulla scorta di criteri valutativi che, se non necessariamente formulati con un livello approfondito di dettaglio, garantiscano comunque una comparazione reale ed effettiva, in un'ottica autenticamente concorrenziale.
Compatibilità del diritto di prelazione con il principio di legalità
Sotto il profilo della compatibilità del diritto di prelazione con il principio di legalità che disciplina l'attività amministrativa di formazione della volontà contrattuale dell'amministrazione, il Collegio ha ritenuto che l'art. 19 del Codice dei contratti pubblici rimette alla stazione appaltante la definizione della procedura di gara, limitando il vincolo di legge al rispetto dei principi generali in materia di gare. In particolare, la norma specifica che "il contratto può essere liberamente negoziato", evidenziando così che la discrezionalità della stazione appaltante è molto ampia ed il modello suggerito è quello della procedura negoziale in cui è lasciato alle parti ampio spettro di manovra. Non è possibile quindi escludere l'introduzione di un diritto di prelazione negoziale od una diversa disciplina di gara, che rispetti comunque la distinzione in fasi.
Su questo aspetto la riflessione dei giudici è interessante, evidenziando come il Codice dei contratti pubblici e le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE "hanno abbandonato il modello unitario di procedura ad evidenza pubblica che appartiene alla nostra tradizione giuridica, per cui sono possibili procedure volte a sollecitare offerte di prestazioni, compartecipazioni alla spesa, collaborazioni nell'individuazione delle prestazioni da porre a base di gara, dialoghi competitivi, negoziazioni varie, in un caleidoscopio di possibilità tra le quali non può escludersi anche il diritto di prelazione o di subentro nell'aggiudicazione".
Pertanto, ad avviso del TAR Lombardia, deve ritenersi del tutto legittima l'introduzione di un diritto di prelazione in favore del promotore, atteso che "la mancata previsione da parte della legge del diritto di prelazione nell'ambito della scarna disciplina del procedimento di affidamento della sponsorizzazione tecnica non può quindi ritenersi elemento ostativo alla sua introduzione".
Altrettanto puntuali sono le osservazioni dei giudici lombardi sul punto della contestata disparità di trattamento tra i concorrenti, dovendosi verificare se dall'introduzione del diritto di prelazione nel caso di specie derivino effetti distorsivi che trasformino la procedura in un indebito vantaggio per uno dei concorrenti. Il Collegio ha evidenziato la posizione delle parti nella procedura e la funzione svolta dall'indennizzo previsto dalla stazione appaltante per entrambe le parti.
Risulta chiaro che le parti non sono poste sullo stesso piano all'interno della gara ma anche che svolgono funzioni solo in parte sovrapponibili. In particolare, il concorrente non proponente sostiene importanti oneri per la partecipazione alla gara, di natura sia diretta (documenti, asseverazioni, progetti) che indiretta (time spending, organizzativi), non così rilevanti come quelli sostenuti dal promotore. A ciò si aggiunge che partecipa ben sapendo quale sarà a grandi linee la proposta della controparte, che si è già espressa in fase programmatoria, e quindi si trova in una posizione di vantaggio. La differente posizione che il promotore e l'aggiudicatario svolgono nella procedura esclude la possibilità che il c.d. "diritto di adeguamento"  violi, di per sé, il principio di parità di trattamento.
Conclusioni
In sostanza, secondo il TAR si è trattato di un utilizzo ragionevole dell'istituto privatistico della prelazione, coerente con i principi generali del procedimento amministrativo e centrato in modo strategico su una forma di partenariato quale la sponsorizzazione tecnica, estesa alla progettazione e alla realizzazione di parte o di tutto l'intervento a cura e a spese dello sponsor delle prestazioni richieste.
L'analisi condotta dai giudici lombardi mantiene tutta la sua validità anche alla luce della  disposizione del nuovo codice dei contratti pubblici - D.Lgs 36/2023 - relativa ai contratti gratuiti, contenuta nell'art.132.  La norma ricalca l'art.19 del vecchio codice, prevedendosi che, trascorso il periodo di pubblicazione dell'avviso, il contratto può essere liberamente negoziato, purché nel rispetto dei principi di imparzialità e di parità di trattamento fra gli operatori che abbiano manifestato interesse, fermo restando il rispetto degli articoli 66, 94, 95, 97 e 100, in ordine alla verifica dei requisiti degli esecutori e della qualificazione degli operatori economici.
In conclusione, la portata della sentenza travalica il caso della sponsorizzazione tecnica, poiché rappresenta una apertura alla possibilità della prelazione nelle forme contrattuali di partenariato tra pubblica amministrazione e privati, là dove si prevedono procedure ad evidenza pubblica snelle e prive di rigide prescrizioni.


LENTEPUBBLICA
Diseguaglianze territoriali e ripartizione delle risorse statali alle Regioni: cosa si nasconde dietro il meccanismo della spesa storica.
Il Dott. Fabio Ascenzi fornisce una riflessione interessante riguardo le diseguaglianze territoriali e la ripartizione delle risorse statali alle Regioni. 
In un mio precedente articolo dedicato al concetto di residuo fiscale, ho accennato alle diseguaglianze causate dallo stesso Stato con il metodo utilizzato, per interi decenni, nella ripartizione delle risorse assegnate alle Regioni per l'erogazione dei servizi ai cittadini. Ritengo, infatti, che questo sia un punto fondamentale da approfondire allorché si voglia approcciare in maniera seria all'analisi dei tanti motivi che sono alla base dei divari socio-economici già presenti nel nostro Paese.
È il tema della cosiddetta spesa storica, questione tutt'altro che semplice o pacifica, considerato che negli anni, a seconda della tesi che si è voluta sostenere, sono stati presi a riferimento differenti dati e modalità di calcolo. Ne riporto alcuni, da cui sono scaturite le mie considerazioni, ovviamente senza la pretesa che siano esaustivi o condivisi da tutti. Comunque sussistono, e qualche riflessione dovrebbero almeno indurla.
Dati sulla spesa storica italiana
Il problema è trasversale a tutto il settore della spesa pubblica, ma voglio concentrarmi innanzitutto sulla sanità. Essa, infatti, costituisce circa l'80% dei bilanci regionali; eppoi proprio in questo settore sono stati stabiliti sin dal 2001 i cosiddetti LEA (Livelli Essenziali Assistenza), cioè l'equivalente dei LEP (Livelli Essenziali Prestazioni) che dovranno essere determinati e finanziati per gli altri servizi; a maggior ragione se si volesse procedere verso il progetto dell'autonomia differenziata. Analizziamo, pertanto, diverse fonti.
Partendo dalla Relazione Annuale dei Conti Pubblici Territoriali 2020, si apprende che la spesa storica sanitaria nel 2018 risultava essere oltre i 118 miliardi di euro costanti, concentrata per circa il 70% nelle Regioni del Centro-Nord. La spesa in quelle meridionali e insulari, invece, sembrava attestarsi da alcuni anni attorno ai 34-35 miliardi di euro, un valore non molto dissimile da quelli rilevati a cavallo tra il 2006 e il 2010, ulteriore dimostrazione di una stasi nel tasso di crescita dell'aggregato.
Il divario si mostrava ancora più evidente se si ampliava il periodo di riferimento: simulando degli indici, ad esempio, emergeva che se nel 2000 si spendeva 100, dopo 18 anni al Centro-Nord tale cifra era stata pari a 137, mentre al Sud non si raggiungeva nemmeno la soglia dei 122. Su un altro aspetto fondamentale per valutare l'incidenza delle spese sanitarie, qual è la componente degli acquisti per beni e servizi, dalla Relazione CPT emergono ulteriori conferme del differente trattamento riservato dallo Stato: nel periodo 2000-2018 la media della spesa pro capite era sempre stata notevolmente superiore nel Centro-Nord (22 punti base di divario); i numeri del solo 2018 rivelavano che nel Centro-Nord si spendevano oltre 1.500 euro a persona per l'acquisto di beni e servizi, a fronte di poco più di 1.100 euro nelle restanti Regioni del Paese.
Già da questi dati potrebbero derivare molti spunti ma, volendo trovare conferme o smentite di quanto sopra, mi sono addentrato anche in una lettura analitica del corposo Rapporto annuale della Corte dei conti del 2019. Ho scoperto, così, che pure in questo si trova riprova che negli ultimi 18 anni vi era stato un forte squilibrio territoriale nella spesa per investimenti in sanità: degli oltre 47 miliardi di euro totali, oltre 27.4 miliardi erano stati impiegati nelle Regioni del Nord; 11.5 in quelle del Centro e 10.5 nel Mezzogiorno. In termini pro capite, a fronte di una spesa nazionale media annua di 44.4 euro, quella nel Nord- Est era stata pari a 76.7 euro (cioè di ben tre quarti più alta), mentre quella nelle Isole 36.3 euro e nel Sud Continentale 24.7 euro. Anche tornando alla Relazione CPT 2020 compare un siffatto divario storico, con un andamento sempre crescente negli anni.
Nel 2004 la differenza pro capite Nord- Sud era stata di circa 257 euro, ma nel 2011 era salita ancora, attestandosi a 516 euro. In termini assoluti si andava, perciò, dai 2.101 euro per un cittadino settentrionale ai 1.669 euro per uno meridionale (2018). Quindi, ancora conferme; ma conoscendo le obiezioni avanzate da alcuni sulla metodologia adottata dalla Relazione CPT, nonostante confortato dagli studi della Corte dei conti, ho completato questa mia indagine consultando anche le pagine internet Noi Italia 2022, dove l'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) traccia un quadro d'insieme dei diversi aspetti ambientali, economici e sociali dell'Italia, evidenziando le differenze regionali che caratterizzano il nostro Paese.
Qui, andando alla sezione dedicata alla salute e welfare, si legge che «nel 2019, a livello regionale, i livelli di spesa sanitaria per abitante sono molto variabili a causa delle differenze esistenti nelle condizioni socio-economiche delle famiglie e nei modelli di gestione dei sistemi sanitari regionali. La spesa pro capite delle ripartizioni geografiche del Centro (1.930,8 euro), del Nord-Est (1.922,1 euro) e del Nord-Ovest (1.978,4 euro) sono simili fra loro. La ripartizione del Centro Nord nel suo insieme (1.947,5 euro) è al di sopra della media nazionale (1.925,4 euro), mentre nel Mezzogiorno (1.882,4 euro) la spesa pro capite è inferiore alla spesa media nazionale».
Anche queste analisi, pertanto, continuano a certificare un evidente divario negli investimenti operati. Una situazione, tra l'altro, che ha contribuito a far aumentare l'odioso fenomeno della cosiddetta migrazione sanitaria, ossia la necessità per milioni di cittadini di ricevere cure in Regioni diverse da quella di residenza; questione molto delicata, che meriterà un apposito approfondimento. Tutti i dati citati sono anteriori al 2020, perciò offrono un quadro oltremodo realistico, essendo precedenti alla pandemia Covid-19, e dunque non alterati dagli investimenti straordinari effettuati durante il periodo dell'emergenza sanitaria.
Ma pure rapporti più recenti ne danno una sostanziale conferma. Diceva Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Certo, nessuna statistica potrà mai dimostrare che se le Regioni del Mezzogiorno avessero ricevuto più risorse, o quantomeno le stesse di quelle settentrionali, avrebbero garantito automaticamente una sanità migliore, con strutture e servizi più efficienti.
Diseguaglianze territoriali e ripartizione delle risorse statali alle Regioni: non solo nella sanità
Ma se negli investimenti statali si è perpetrata una siffatta disparità di trattamento, proprio irrilevante non può essere stato. Da ultimo, come accennato in premessa, va sottolineato che tale divario non è avvenuto solo nell'ambito sanitario. Infatti, tornando ancora alla Relazione CPT 2020, si trova riprodotto in tutti gli ambiti della spesa totale del Settore Pubblico Allargato dove, con riferimento ai macro territori, le spese pubbliche del 2018 risultavano realizzate per 671 miliardi di euro nel Settentrione e per soli 262 miliardi nel Mezzogiorno.
Il quadro emerso dovrebbe essere sufficiente per indurre lo Stato, e le istituzioni che pro tempore lo rappresentano, a svolgere una seria riflessione su quanto accaduto; nonché a introdurre tutte le misure necessarie per rovesciare le modalità finora adottate nella ripartizione dei fondi. Magari superando una volta per tutte il parametro della spesa storica, svoltando finalmente verso un sistema basato sul concetto dei cosiddetti fabbisogni standard, più appropriato a definire il costo medio necessario a erogare un determinato servizio, e a garantire le risorse necessarie per assicurare il finanziamento dei relativi LEP.
Dovrebbe essere sufficiente. Ma invece ora s'impone tra le priorità il progetto dell'autonomia differenziata. Con buona pace dei princìpi di uguaglianza sostanziale dettati dalla nostra Costituzione, che con l'art. 3 affida proprio alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale; e con l'art. 119 alla legge dello Stato l'istituzione di un fondo perequativo per supportare i territori con minore capacità fiscale per abitante.


ILSOLE24ORE
Il rimbalzo del turismo nel 2023 (con valori a livello mondiale ormai prossimi a quelli dell'epoca pre-pandemia) si è tradotta anche in una ripresa degli affitti brevi nelle grandi città e nelle destinazioni più ricercate dai visitatori nazionali e stranieri. I centri storici italiani sono tornati a essere sotto pressione e a rischio di overtourism. Il governo è intervenuto sul tema ma per alcuni sindaci in maniera non sufficiente a regolare un fenomeno che rischia di rendere invivibile le città anche per l'alto impatto che questa offerta può avere sul prezzo degli affitti.
L'ultima polemica è quella tra il sindaco di Milano Giuseppe Sala («una regolamentazione "fuffa"») e la ministra del Turismo Daniela Santanchè («Al sindaco Sala dico che quello degli affitti brevi non è un tema dell'ultimo anno, c'è da parecchi anni e non ricordo nessun ministro che ne abbia parlato prima di noi»). Il capoluogo milanese ha chiesto in passato all'esecutivo di poter applicare un tetto massimo di giorni agli immobili destinati agli affitti turistici, un "potere speciale" concesso finora solo a Venezia.
Tra le novità introdotte dal Governo in materia di affitti brevi c'è il Cin, il Codice unico identificativo obbligatorio per tutte le strutture ricettive con questa offerta. La norma non è però ancora attiva e i tempi per la sua entrata in vigore sono ancora lunghi. «Noi ce la stiamo mettendo tutta - ha detto Santanchè -. I tempi non sono così rapidi perché il turismo è una materia concorrente, quindi abbiamo anche le Regioni», alcune delle quali «avevano già fatto il Cir (Codice identificativo regionalendr). «Bisogna trasformare il Cir in Cin, ma siamo alle battute finali». «Almaviva», l'azienda che ha "l'appalto per fare questo, ci sta lavorando». Quindi la previsione: «Credo che in un mese si possa avere questo Cin».
Qual è il livello di sostenibilità delle città italiane in tema di affitti brevi? Un modo per misurare il fenomeno e avere un paragone con altri mete europee è quello di mettere in rapporto il numero di notti in alloggi per soggiorni di breve durata con la popolazione residente: più alto il valore, più forte è la pressione che la presenza turistica ha sulla vita della città. Per fare questo si possono usare i numeri di Eurostat che da alcuni anni ha avviato una collaborazione con le quattro principali piattaforme (Airbnb, Booking.com, Tripadvisor e Expedia Group) che trasmettono all'ufficio di statistica europeo i propri dati su annunci e prenotazioni.
I dati completi per città sono disponibili al momento solo per l'anno 2022 ma è già evidente la ripresa rispetto ai numeri del 2019 (ultimo anno non influenzato dalla pandemia mondiale). Prendendo in considerazione le prime cinque destinazioni urbane europee per numero di notti in affitti brevi emerge come la più sbilanciata sia Lisbona: la capitale del Portogallo è terza (dopo Parigi e Barcellona) per numero di notti complessive (8,84 milioni) ma il rapporto con la sua popolazione (poco più di mezzo milione di abitanti) fa schizzare il rapporto 16,12 notti per ogni residente. A livelli più contenuti sono Parigi ()quasi 14 milioni di notte ma un rapporto di 6,64 ogni abitante) e Barcellona (5,32).
A Venezia 13,27 notti ogni residente
In Italia Roma è a un livello simile a quello di Madrid: nel 2022 si sono registrati 8,5 milioni di notti che, in rapporto ai suoi 2,7 milioni di abitanti, restituiscono un indice di 3,11. Molto meno sostenibile, invece, la situazione di Venezia : la città della laguna ha ospitato circa 3,3 milioni di notti contro 250mila veneziani residenti. Il risultato è 13,27, il più alto dopo quello di Lisbona nella graduatoria presa in considerazione. Un rapporto che sarebbe ancora più sbilanciato se si prendesse in considerazione il solo centro storico dove si concentrano gli alloggi turistici e che conta circa 50mila abitanti.
I limiti non ancora applicati in Laguna
Come detto, il Comune veneziano è stata concessa la possibilità con una disposizione contenuta nel Dl aiuti e approvata nel luglio 2022 di «con particolare riguardo al centro storico e alle isole» i limiti massimi per la destinazione degli immobili residenziali ad attività di locazione breve. Passato un anno e mezzo, però, quella facoltà non è stata ancora esercitata. Il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha spiegato - in un'intervista al Corriere della sera - che «gli affitti brevi nascono dalle necessità delle famiglie di arrotondare il proprio reddito. Allora il punto si può risolvere in due modi: in maniera coercitiva, fissando limiti e creando i buoni o cattivi, oppure puntando alla strada della concertazione, quella che abbiamo scelto. Ci stiamo infatti confrontando con proprietari e categorie per creare un registro degli immobili facoltativo: a chi si iscrive diamo la possibilità di affittare tutto l'anno con regole da rispettare, gli altri avranno dei limiti. Poi ci penserà la Guardia di Finanza a fare i controlli».
A Firenze livelli alti di affitti brevi
Eppure proprio al modello Venezia guardano altri centri sotto pressione turistica. Come Firenze che, con i suoi 367mila abitanti, ha "ospitato" 3,48 milioni di notti per affitti brevi con un rapporto molto alto: 9,48. A giugno la giunta guidata da Dario Nardella ha introdotto con una delibera un divieto, non retroattivo, di utilizzare immobili con destinazione residenziale per affitti turistici brevi in tutta l'area Unesco del centro storico con l'obiettivo di sostenere la residenza nel centro storico. Un provvedimento contro il quale sono stati presentati molti ricorsi: Il Tar della Toscana si esprimerà a maggio.


lentepubblica.it
Sale l'età media dei dipendenti pubblici

Secondo i dati dell'ultimo rapporto Aran, sale l'età media dei dipendenti pubblici: nella PA, il 39% ha più di cinquant'anni.
La Pubblica Amministrazione sembra non essere un settore per giovani.
Almeno questo è quello che dice l'ultimo rapporto dell'Aran sull'età media dei dipendenti pubblici, aggiornato al 19 febbraio 2024.Vediamo allora tutti i dati in riferimento.
Dipendenti pubblici: sale l'età media nella Pubblica Amministrazione
Quattro dipendenti pubblici su dieci hanno un'età compresa tra i 50 e i 59 anni. L'età media, perciò, raggiunge i 49,8 anni.
Ecco i dati più nello specifico:Il 39% degli assunti rientra nella fascia tra i 50 e i 59 anni;26% tra i 40 e i 49 anni;14% tra i 30 e i 39 anni;16% è over 60;5% tra i 18 e i 29 anni.La fascia più alta di età si concentra nel settore delle amministrazioni con comparto autonomo o fuori comparto, in quello delle funzioni locali e in quello delle funzioni centrali.
Nella Pubblica Amministrazione, ci sono 1'266'135 dipendenti pubblici con età compresa tra 50 e 59 anni, solo 908 hanno tra i 18 e i 29 anni e meno di 7000 tra i 30 e i 39 anni.
Nonostante una lieve riduzione dell'età media dei lavoratori, rimane fin troppo basso il numero dei lavoratori under 30 nella PA.
Anche nel mondo dell'istruzione, l'età media rimane alta. Per i professori e i ricercatori universitari, l'età media si attesta a 54,8 anni. A seguire troviamo i dirigenti (53,5 anni), i docenti scolastici e di istituti AFAM con contratto a tempo indeterminato (52,4 anni) e i professionisti, ricercatori e tecnologi (52 anni).Differenze di genere nell'età dei dipendenti pubblici.
In riferimento al report di Aran, possiamo constatare poche differenze di età media, in base al genere.
In linea generale, l'età media degli uomini è leggermente più bassa rispetto a quella delle donne (49,3 anni contro 50,2).I dipendenti di sesso maschile più giovani sono nelle forze armate (41,5 anni), nella Polizia (45,5 anni) e nei Vigili del Fuoco (47,6 anni).
Anche per le donne, le più giovani sono nelle forze armate (31,2 anni), nella Polizia (41,7 anni) e poi nella carriera diplomatica (42,6 anni).Il settore con più lavoratori maturi è la carriera penitenziaria: per gli uomini, l'età media è di 57,3 anni, mentre per le donne è di 56,4 anni.


servizidemografici.it
Province: election day il 29 settembre
L'emendamento al DL Elezioni, richiesto da UPI, prevede "l'election day" al 29 settembre 2024 per le Province che avrebbero dovuto svolgere le elezioni a fine luglio o all'inizio di agosto


Il 29 settembre prossimo, sarà un momento cruciale per 41 Province che si recheranno alle urne simultaneamente per le elezioni di secondo livello. Tuttavia, il numero potrebbe aumentare in seguito agli esiti delle prossime elezioni amministrative. Questo è quanto stabilito dall'emendamento al DL Elezioni, sollecitato da UPI e recentemente approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato.Le parole del Presidente di UPIMichele de Pascale, Presidente di UPI, esprime gratitudine ai Senatori per aver accolto la richiesta dell'organizzazione. Questa iniziativa mira a garantire un'organizzazione ordinata e riconoscibile su tutto il territorio durante il prossimo appuntamento elettorale, che coinvolge un gran numero di enti. L'emendamento si basa sull'accordo stipulato in Conferenza Stato-Città con i Ministri dell'Interno, Piantedosi, e degli Affari Regionali, Calderoli. Tale accordo posticipa la scadenza degli organi provinciali nelle Province in cui oltre il 50% dei Comuni sarà chiamato al voto in giugno.De Pascale sottolinea le difficoltà causate dal modello elettorale delle Province, caratterizzato da confusione e lacune. La disparità nei mandati tra il Presidente della Provincia, che dura 4 anni, e i consigli provinciali, che durano 2 anni, comporta elezioni praticamente annuali. Si auspica che la sensibilità dimostrata dal Senato nell'accogliere la richiesta di UPI porti presto a una piena assunzione di responsabilità nel completare una riforma attesa da dieci anni. È necessario restituire alle Province un sistema di voto diretto all'altezza della loro importanza come istituzione della Repubblica, garantendo stabilità nella governance e nelle funzioni, nonché risorse e personale adeguati per assicurare ai cittadini una gestione amministrativa locale più efficiente.L'emendamento al DL Elezioni: nuova data per le elezioni provincialiL'emendamento al DL Elezioni, approvato il 22 febbraio, prevede un "election day" il 29 settembre 2024 per le Province che avrebbero dovuto tenere le elezioni a fine luglio o all'inizio di agosto. Ciò proroga il mandato dei Presidenti e dei consiglieri in carica fino al rinnovo degli organi provinciali.

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