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Dal 21 luglio all'8 settembre rassegne del teatro classico e del teatro d'autore al nuovo Teatro dell'Efebo.
Nella splendida cornice del Giardino Botanico di Agrigento riapre il Teatro dell'Efebo con due importanti rassegne di eventi che caratterizzeranno il cartellone 2024. La struttura è stata inaugurata lo scorso settembre dopo gli interventi di recupero e restauro dell'antica cava di arenaria con grande successo di pubblico e l'attenzione dei media nazionali.Il cartellone prevede una rassegna del teatro classico e del mito (dal 21 luglio al 2 agosto) e del teatro d'autore e musica (dal 3 agosto all'8 settembre) di elevatissimo livello artistico che valorizzeranno ulteriormente la scelta del Libero Consorzio Comunale di Agrigento di offrire alla fruizione culturale un luogo di grande fascino e ricco di storia.Il nuovo cartellone sarà presentato oggi, 9 luglio 2024, alle ore 9.45 nella conferenza stampa che si terrà nello stesso Teatro all'interno del Giardino Botanico di via Demetra.
LA SICILIA
La Cnn impietosa: «I turisti scappano da Agrigento per la mancanza d'acqua»Il celebre network americano ha pubblicato un reportage: e non ne usciamo bene...
Cnn impietosa su Agrigento e sulle conseguenze che la siccità sta creando ad un settore trainante dell'economia: il turismo.
«Su TripAdvisor e altri forum di viaggio - si legge in un reportage - i turisti si chiedono se valga la pena visitare le aree colpite della Sicilia. Gli hotel stanno avvisando i clienti di potenziali carenze e stanno aiutando i visitatori a prenotare di nuovo altrove sull'isola dove le restrizioni sono meno severe o non sono in vigore».
Gli acquedotti - si legge sul sito del cemebre network americano - sono così all'asciutto che i piccoli hotel e le pensioni della città e della costa vicina sono costretti a respingere i turisti. Non hanno abbastanza acqua per garantire ai loro ospiti un bagno con scarico o una doccia dopo una giornata fuori nel caldo estivo».
«Giustamente, le persone ci chiedono rassicurazioni prima di venire, ma non sappiamo cosa dire», ha detto alla CNN Giovanni Lopez, proprietario di un B&B. «La situazione sta rapidamente impattando l'intero settore dell'accoglienza turistica, il che rischia gravi conseguenze economiche, dato che il turismo è un settore su cui quasi tutti in questa parte della Sicilia fanno affidamento».
La Cnn stronca il Governo della Regione: «Ha chiesto a Roma dei sussidi ma non c'è ancora un piano concreto per aiutare l'isola». Non risparmia nemmeno il ministro Daniela Santanché: «L'ufficio del ministro del turismo italiano, Daniela Santanchè, non ha risposto alla richiesta di commento della CNN, ma ad aprile ha affermato che la Sicilia dovrebbe cercare di distribuire la stagione turistica ed evitare di concentrarsi esclusivamente sull'estate, quando i problemi idrici peggiorano».
Marco Maccarrone, proprietario del ristorante Caico Trattoria e Cantina di Agrigento, dice alla Cnn che l'isola è abbandonata a se stessa: «La stagione estiva è alle porte e siamo preoccupati. Nessuno ci ha dato soluzioni alternative alle cisterne d'acqua che stiamo pagando noi stessi. Questo rischia di distruggere l'unica risorsa che abbiamo: il turismo».
E poi ci sono gli hotel e le parole di Francesco Picarella, presiedente della Federazione alberghiera di Agrigento, che possiede anche un hotel nel centro della città: «Il problema odierno è il risultato di una politica fallimentare di gestione delle acque che dura da 20 anni. Gli hotel che hanno le proprie riserve in qualche modo compensano; i B&B del centro storico sono in estrema difficoltà».
ILSOLE24ORE
Fondi Ue, per la Corte dei conti europea controlli lacunosi e troppi errori.
L'Unione europea non è riuscita a ridurre in modo significativo gli errori che persistono nella spesa per la politica di coesione, lo strumento principale a disposizione del 27 Paesi membri per ridurre le disparità economiche e sociali all'interno dell'Unione. Questa la conclusione dell'analisi condotta della Corte dei conti europea sui controlli, definiti «ancora lacunosi a tutti i livelli», effettuati della Commissione europea e degli Stati membri sull'utilizzo dei fondi strutturali. Per la magistratura contabile europea, l'esecutivo Ue non solo ha sottostimato il livello totale di spese irregolari, ma ha anche utilizzato in misura insufficiente gli strumenti disponibili per indurre agli Stati membri a migliorare la gestione della spesa ed i relativi controlli. La politica di coesione, ricorda la Corte nel documento pubblicato oggi, costituisce un importante settore di spesa - circa 392 miliardi di euro, oltre un terzo del bilancio Ue - e negli anni è stato anche quello che ha fatto registrare il maggior numero di sbagli. Il livello di errore stimato non misura frodi, inefficenze o sprechi, ma è una stima delle risorse finanziarie che non sono state utilizzate nel rispetto delle norme nazionali e dell'Ue. «La Commissione e gli Stati membri lavorano insieme affinché la politica di coesione dell'Ue produca benefici per i cittadini, ma devono compiere maggiori sforzi per far sì che la spesa avvenga nel rispetto della normativa», ha osservato Helga Berger, responsabile dell'analisi condotta dalla Corte. «Quando si parla di controlli, vi sono molti giocatori in campo, ma i risultati semplicemente non si vedono».
I punti deboli del sistema di controllo
Nella piramide dei controlli, la prima linea di difesa per garantire spese regolari è costituita dai controlli effettuati dalle autorità di gestione degli Stati membri ma questi sono spesso lacunosi e avrebbero potuto impedire più di un terzo degli errori rilevati dagli auditor della Corte tra il 2017 e il 2022. In secondo luogo, ci sono i controlli svolti dagli organismi di audit degli stessi Stati membri. Ed anche qui, rileva ancora l'analisi condotta, gli auditor della Corte hanno riscontrato debolezze di varia natura e gravità nel lavoro espletato da 40 dei 43 organismi di audit esaminati. Inoltre, la Commissione - cioè la terza linea di difesa - basa le proprie valutazioni sui controlli solo limitatamente affidabili svolti a livello nazionale, sebbene alcune autorità nazionali siano più efficaci di altre nel rilevare le spese inficiate da errori. Allo stesso tempo, gli strumenti utilizzati dalla Commissione per rilevare, prevenire o correggere errori mostrano anch'essi una serie di debolezze. Dato che le verifiche documentali da essa operate non sono concepite per rilevare spese inficiate da errori, la Commissione potrebbe ottenere un impatto maggiore espletando più audit di conformità sul campo. L'esecutivo Ue può inoltre utilizzare rettifiche finanziarie per gravi carenze nei controlli per porre rimedio all'incidenza negativa delle spese inficiate da errori sul bilancio dell'Ue. Finora, però, gli Stati membri non hanno perso fondi loro assegnati a seguito di tali rettifiche ma, al contrario, li hanno potuti riutilizzare per altri progetti. L'effetto deterrente risulta quindi limitato, e gli Stati membri non sono incentivati a migliorare i propri sistemi, in modo da evitare di commettere da subito gli errori.
Negli ultimi anni, la maggior parte degli errori presenti nella spesa per la coesione è derivata da spese e progetti non ammissibili, con al secondo posto il mancato rispetto, da parte dei destinatari dei fondi, delle norme in materia di aiuti di Stato e di appalti. La Corte ha individuato tre cause di fondo degli errori: amministrazione inadeguata e verifiche inefficienti da parte delle autorità di gestione; negligenza o presunto mancato rispetto intenzionale delle norme da parte dei beneficiari; problematiche di interpretazione del quadro normativo. Infine, secondo la Corte, la sovrapposizione tra i periodi di spesa pluriennali ed i fondi dell'Ue per la ripresa post-Covid dovrebbe esercitare ulteriore pressione su alcuni Stati membri per garantire che il denaro sia utilizzato nel rispetto di tutte le norme.
LENTEPUBBLICA
Dalla riforma del Titolo V della Costituzione alla legge sull'autonomia: genesi ed esperimenti di regionalismo differenziato
Un approfondimento, a cura di Fabio Ascenzi, dedicato a genesi ed esperimenti di regionalismo differenziato con l'analisi del periodo storico che va dalla riforma del Titolo V della Costituzione alla legge sull'autonomia.
Approvata la legge sull'autonomia differenziata, per la prima volta dopo tanti anni, si sono formati schieramenti alquanto omogenei, con i partiti di centrodestra uniti a favore del provvedimento e quelli di centrosinistra assolutamente contrari. Durante le dispute viene spesso evocato l'elemento fondativo della norma appena approvata, e cioè quell'art. 116 terzo comma introdotto nella nostra Costituzione dalla riforma del Titolo V del 2001. Ad affiorare, ovviamente, non sono tanto dissertazioni giuridiche quanto piuttosto l'opportunità che tale riferimento consegna agli attuali sostenitori dell'autonomia, potendo schernire gli avversari che con questa legge procedurale si è voluto dare semplicemente attuazione a una modifica voluta anni addietro dallo stesso centrosinistra.
Indice dei contenuti
Dalla riforma del Titolo V della Costituzione alla legge sull'autonomia
Problemi e lacune nella riscrittura del Titolo V
La mancanza di una disciplina transitoria e di attuazione della riforma Costituzionale
La volontà di un "federalismo più spinto"
Un regionalismo travagliato
Dalla riforma del Titolo V della Costituzione alla legge sull'autonomia
Un tema ricorrente e avevo detto che all'occorrenza ci sarei tornato. Al di là della strumentalità dell'argomento, è indubbio che se oggi ci troviamo ad affrontare questi temi è proprio per il virus latente del regionalismo differenziato introdotto in Costituzione da quella riforma. Ma non solo: paradosso vuole che se agli inizi degli anni Novanta del Novecento fu la Lega Nord a imporre nell'agenda politica le tematiche dell'autonomia e del federalismo, furono però poi i governi di centrosinistra ad approvare, in epoche diverse, gran parte della relativa legislazione, la citata riforma del Titolo V e nel 2018 le pre-intese con tre Regioni per l'autonomia differenziata.
Risulta allora interessante interrogarsi sul perché si volle introdurre quella modifica costituzionale tanto discussa. La domanda meriterebbe una risposta articolata e complessa, vi ho dedicato diverse pagine nel mio libro scritto sull'argomento. Dovendo semplificare non si può che partire da una memoria delle dinamiche politiche dell'epoca, che vedevano i portatori delle istanze autonomistiche capeggiati dalla Lega Nord spingerle ancora oltre, con minacce addirittura secessioniste, forti anche delle posizioni di governo conquistate in alcune importanti Regioni settentrionali e in moltissime amministrazioni locali.
In quel contesto il centrosinistra, allora al Governo nazionale, cercò di approntare degli strumenti di reazione nel tentativo di contenerle, illudendosi che bastasse qualche innesto di federalismo inserito nella Carta per intercettare e depotenziare tali istanze territoriali, nonché a mandare in frantumi l'alleanza della Lega con il centrodestra. Pertanto, la riforma costituzionale del 2001 fu innanzitutto il risultato diretto di un approccio al federalismo imposto dall'immaginario delle forze politiche in campo.
Ma non v'è dubbio che per conseguire quel risultato vennero fatte delle forzature sulla tempistica e sulla modalità di approvazione che ne hanno segnato anche i destini futuri. Per la prima volta una legge di revisione costituzionale venne approvata da una maggioranza limitatissima (solo 4 voti in più alla Camera); per la prima volta vennero attivate le richieste per il referendum confermativo ex art. 138 Cost. sia da chi voleva affossarla, sia dai suoi fautori che volevano trovare nelle urne l'investitura popolare. Il referendum ci fu, e la riforma venne approvata.
Oggi sappiamo che quei vantaggi politici attesi dalla strategia del centrosinistra non si realizzarono, mentre con le problematiche introdotte dalle modifiche costituzionali che vennero approvate stiamo facendo ancora i conti.
Problemi e lacune nella riscrittura del Titolo V
Non mi riferisco solamente all'introduzione del regionalismo differenziato, ma anche ai numerosi problemi evidenziati nel tempo da una riscrittura del Titolo V che molti studiosi hanno definito poco brillante e lacunosa.
Basti pensare all'art. 114 Cost., che ha modificato in maniera sostanziale la gerarchia dei rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali; o all'art. 117 Cost., che prima prevede una non chiara demarcazione tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato e quella concorrente Stato-Regioni, e infine ne traccia anche una cosiddetta residuale, attraverso cui la competenza legislativa in tutte le materie o ambiti non assegnati allo Stato spetta ora alle Regioni.
Nel disegno costituzionale del 1947 l'equilibrio tra le esigenze unitarie e le esigenze di autonomia era riassunto nella disciplina della potestà legislativa regionale, ma la legge statale rimaneva centrale nella costruzione delle garanzie del principio di unità della Repubblica. Nella nuova formulazione dell'art. 117 Cost., invece, sembra che la legge dello Stato abbia oramai perso la competenza generale e non possa più porsi quale elemento unificante del sistema complessivo. E infatti il quadro che si venne a delineare a seguito della riforma è stato alquanto incerto, tanto che è letteralmente esploso il conflitto sulle competenze Stato-Regioni, con la Corte costituzionale costretta ad assumere un protagonismo sempre più spiccato, sfociato in una vera e propria riscrittura del processo riformatore messo in atto dal legislatore.
La mancanza di una disciplina transitoria e di attuazione della riforma Costituzionale
Al di là degli aspetti giuridici più stretti, ritengo che il problema principale sia stato l'assenza di un'accurata disciplina transitoria e d'attuazione della riforma che, a fronte di modifiche così pregnanti del quadro costituzionale, sarebbe stata necessaria per governare il passaggio dal vecchio al nuovo assetto dei poteri legislativi.
Si sono riproposti negli anni tutti quei limiti politici di un immaturo bipolarismo italiano che non è stato mai in grado di dare la necessaria continuità ai vari processi messi in atto, perpetrando un atteggiamento schizofrenico, alimentato solo dalle convenienze, alterne, di parte.
Le stesse modalità di approvazione della riforma, passata con una maggioranza risicata, hanno rappresentato un evidente limite endogeno, una sorta di peccato originale, poiché solo un'ampia condivisione iniziale avrebbe potuto garantire l'attuazione lineare della stessa, a prescindere dall'alternarsi delle diverse maggioranze politiche nel tempo. Ma così non fu: dopo la vittoria elettorale del centrodestra, dell'attuazione della riforma si dovette occupare un
Governo sostenuto proprio da quelle forze politiche che nell'iter parlamentare e nell'appuntamento referendario l'avevano fortemente osteggiata; ovvia conseguenza fu l'ostilità all'attuazione del nuovo quadro costituzionale, e un freno ai primi timidi tentativi delle Regioni di usare i nuovi poteri.
La volontà di un "federalismo più spinto"
La neonata coalizione trovò giustificazione nell'obiettivo dichiarato di introdurre un federalismo più spinto (la cosiddetta devolution), poiché considerava insufficiente quello introdotto dalla precedente riforma. Un tentativo venne fatto con l'ennesima revisione del Titolo V del 2005, approvata ancora una volta a maggioranza semplice, ma bocciata successivamente dal referendum confermativo nel 2006.
Quella presunta riforma della riforma fu l'impegno di un'intera legislatura, durante la quale però si erano disattese, gran parte delle pur minime innovazioni positive introdotte dalla riforma del 2001 che, se ben articolate, avrebbero potuto in qualche modo realizzare, tra pro e contro, un embrionale principio di affermazione delle autonomie: il federalismo fiscale; la legislazione di principio; l'individuazione delle funzioni fondamentali spettanti agli enti locali; l'integrazione della Commissione bicamerale con rappresentanti delle Regioni e delle autonomie; l'attuazione del decentramento di ulteriori funzioni amministrative. Tutte mancanze che hanno completamente mutato, in negativo, le aspettative e le possibilità che avrebbero potuto vedere luce all'interno di un percorso lineare ben definito, ma mai compiuto.
Lo sottolineo perché sono argomenti che tornano ora dirimenti anche nelle ipotesi di attuazione dell'art. 116 Cost., terzo comma; nonché sulle motivazioni che possono essere addotte da chi ritiene che proprio il mancato sviluppo di quei punti attuativi del processo riformatore avviato nel 2001, in particolare il federalismo fiscale introdotto dalla legge n. 42 del 2009, sia oggi il maggiore ostacolo all'attuazione di un'autonomia differenziata che possa rimanere aderente ai princìpi fondamentali dettati dalla nostra Costituzione.
Un regionalismo travagliato
Le vicende storico-politiche del regionalismo italiano sono state lunghe e travagliate. Ecco perché ritengo superficiale liquidare semplicemente come contraddittorie o strumentali posizioni che in passato abbiano guardato con favore ad alcune forme di autonomia, mentre oggi ritengono la legge appena approvata inadeguata, nonché soggetta a rischio di legittimità costituzionale per molti suoi profili.
Promuovere un modello di autonomia regionale solidaristica, o altrimenti detta cooperativa, sarebbe infatti assolutamente coerente con quello ispirato ai princìpi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione che, con tutti i suoi limiti, era stato comunque posto alla base della riforma del 2001. Tutt'altra cosa, invece, sarebbe sostenere un modello di differenziazione competitiva, che pone a presupposto delle richieste il mantenimento della spesa storica e, direttamente o surrettiziamente, il trattenimento sui propri territori del presunto residuo fiscale, poiché le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dal dettato costituzionale non esonerano certo chi le ottenga dall'obbligo solidale di partecipare allo sviluppo della Repubblica nel suo insieme e di garantire l'eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini pretesa dal secondo comma dell'art. 3 Cost. Non è solo questione di solidarietà, ma di costituzionalità.
LENTEPUBBLICA
Appalti, proroga presentazione offerte se piattaforma telematica non funziona
Il TAR della Sicilia, con la sentenza numero 2038/2024, si pronuncia sui casi in cui la piattaforma telematica che gestisce le gare d'appalto non funziona: in queste circostanze è legittima la proroga della presentazione delle offerte economiche.
I giudici amministrativi isolani hanno accolto il ricorso di una società che era stata esclusa da una gara d'appalto per un presunto malfunzionamento della piattaforma telematica.
I fatti risalgono al febbraio 2024, quando la società in questione ha tentato di presentare la propria offerta per la gara indetta dall'Azienda idrica comuni agrigentini (AICA). Tuttavia, a causa di un presunto problema tecnico della piattaforma, la società non è riuscita a completare la procedura di invio entro il termine previsto.
La società ha quindi presentato ricorso al TAR Sicilia, lamentando l'illegittima esclusione dalla gara. Il Tribunale ha accolto il ricorso, rilevando che la società non ha potuto partecipare alla gara per un malfunzionamento della piattaforma telematica imputabile all'AICA. Nel caso specifico, il TAR ha accertato che la società ha tempestivamente segnalato il problema, però non risulta adottato alcun provvedimento per consentirle di presentare la propria offerta.
Appalti, proroga presentazione offerte se piattaforma telematica non funziona
Il TAR ha evidenziato che, in base all'articolo 25, comma 2, del Codice degli appalti (D.lgs. n. 36/2023), se un operatore economico non riesce a presentare la propria offerta a causa di un malfunzionamento informatico imputabile alla stazione appaltante, ha diritto ad essere "rimesso in termini", vale a dire la facoltà di proporre nuovamente istanze o attività che precluse per "cause di forza maggiore".
Condizioni per la rimessione in termini
La rimessione in termini è subordinata al verificarsi di due precise condizioni:
Malfunzionamento informatico: deve esserci un problema tecnico della piattaforma telematica che abbia impedito o ostacolato la presentazione dell'offerta. La stazione appaltante è tenuta a dimostrare l'adeguatezza del funzionamento della piattaforma e ad attivare le necessarie misure per risolvere eventuali criticità.
Imputabilità alla stazione appaltante: il malfunzionamento deve essere imputabile alla stazione appaltante. Ciò significa che il problema tecnico derivi da negligenza, carenze manutentive o scelte inadeguate da parte della stazione appaltante nella gestione della piattaforma.
Onere probatorio
L'onere di provare il malfunzionamento e la sua imputabilità alla stazione appaltante grava sull'operatore economico. Tuttavia, la stazione appaltante ha l'obbligo di fornire adeguata informativa e assistenza tecnica ai concorrenti durante la fase di presentazione delle offerte.
Rimedi in caso di mancata rimessione in termini
Se la stazione appaltante non concede la rimessione in termini, l'operatore economico escluso può presentare ricorso al TAR. Il Tribunale valuterà le prove fornite e, in caso di accertamento del malfunzionamento e della sua imputabilità alla stazione appaltante, annullerà l'esclusione del concorrente e disporrà la riapertura dei termini per la presentazione delle offerte.
Precedente giurisprudenziale
La sentenza del TAR Sicilia citata nell'articolo rappresenta un importante precedente giurisprudenziale in materia di rimessione in termini per malfunzionamento delle piattaforme telematiche. Il Tribunale ha chiaramente affermato il principio di tutela dei concorrenti in caso di problemi tecnici imputabili alla stazione appaltante.
Le stazioni appaltanti devono prestare particolare attenzione all'affidabilità delle piattaforme telematiche utilizzate per le gare d'appalto. È necessario adottare misure preventive per minimizzare i rischi di malfunzionamento e attivare adeguate procedure di intervento in caso di problemi tecnici. L'omissione di tali cautele può esporre le stazioni appaltanti a ricorsi da parte degli operatori economici e a conseguenze negative in termini di contenzioso e ritardi nelle procedure di gara.