AGRIGENTONOTIZIE
Cantieri nelle strade provinciali, bando da 1,5 milioni per la manutenzione nel comparto ovest
Interventi su cinque arterie tra Menfi, Montevago, Sambuca e Santa Margherita Belice. Offerte entro il 27 ottobre sulla piattaforma telematica del Libero consorzioIl Libero consorzio comunale di Agrigento punta l'attenzione sulle strade provinciali da rendere più sicure ed efficienti. Pubblicato nella sezione “Gare e appalti” il bando per l’affidamento dell’accordo quadro biennale per la manutenzione straordinaria di alcuni tratti del comparto ovest.
Gli interventi riguardano le provinciali 42 Menfi-Partanna, 43 Montevago-SP 42, 44B Sambuca-bivio Spadolilli-SS 624-stazione Gulfa-Santa Margherita Belice, 45 Veneria-SP 44B-Santa Margherita Belice-Salaparuta e 83 SP 44A-Santa Margherita Belice-Salaparuta-SS 624-confine con la provincia di Palermo.
La gara, da svolgersi in modalità telematica con inversione procedimentale, prevede la presentazione delle offerte entro le 12 di lunedì 27 ottobre ramite la piattaforma digitale certificata Maggioli. L’importo complessivo dell’appalto è di 1 milione 550 mila euro, oltre Iva, di cui 46.500 euro per oneri di sicurezza non soggetti a ribasso. I fondi provengono dal decreto legge n. 95 del 30 giugno .
“Finanziamenti ottenuti grazie all’impegno del Libero consorzio comunale di Agrigento – spiega il presidente Giuseppe Pendolino – finalizzato al miglioramento delle condizioni di sicurezza della rete stradale di nostra competenza”.
I lavori dovranno essere eseguiti entro due anni dalla consegna, secondo le indicazioni dei tecnici del settore infrastrutture stradali che hanno redatto il progetto. Sono previsti interventi di consolidamento con gabbionate di controripa e sottoscarpa, rifacimento dei cassonetti stradali, risagomatura delle sedi deformate, bitumatura, posa di nuove barriere di protezione e segnaletica orizzontale e verticale.
L’apertura delle offerte avverrà alle 8.30 di martedì 28 ottobre nella sala gare del gruppo contratti del Libero consorzio comunale, in via Acrone 27 ad Agrigento.
AGRIGENTONOTIZIE.IT
"Artigianato in fiera", ecco come le imprese potranno partecipare.
Nota - Questo comunicato è stato pubblicato integralmente come contributo esterno. Questo contenuto non è pertanto un articolo prodotto dalla redazione di AgrigentoNotizie
È stato pubblicato su www.provincia.agrigento.it l'avviso per la partecipazione delle imprese artigiane della provincia ad “Artigiano in Fiera”, importante manifestazione a livello nazionale in programma al Centro Fieristico di Milano-Rho Pero dal 6 al 14 dicembre 2025. Si tratta della fiera più prestigiosa del settore che consente alle imprese di far conoscere i propri prodotti al pubblico con potenziali ritorni positivi in termini di immagine e la collocazione dei prodotti del territorio agrigentino sul mercato. Le imprese selezionate avranno a disposizione uno stand all'interno del Centro Fieristico. Avranno priorità di partecipazione le imprese artigiane del settore agroalimentare, artistico e tipico del territorio o di strutture associative che promuovono gli stessi prodotti.Torna, dunque, il Libero Consorzio a promuovere un settore strategico dell'economia provinciale dopo anni di assenza dai grandi eventi fieristici per le note ristrettezze di bilancio. Il Presidente Giuseppe Pendolino e tutti i consiglieri delegati sottolineano come si sia voluto dare un primo concreto segnale del ritorno del Libero Consorzio nel sostegno alle attività artigianali della provincia in settori trainanti la nostra economia, e come le scelte politiche debbano incidere positivamente sulla promozione delle nostre eccellenze produttive.
Le imprese interessate, con sede legale ed operativa sul territorio provinciale, potranno presentare istanza di partecipazione tramite PEC all'indirizzo protocollo@pec.provincia.agrigento.it entro le ore 10:00 del 27 ottobre 2025.
Per ulteriori dettagli consultare l'avviso su:
https://www.provincia.agrigento.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/16348
ILSICILIA
Deputato supplente, ok alla modifica dello Statuto speciale. Mancuso: “Un passo avanti storico per la Sicilia”
L’Assemblea Regionale Siciliana ha espresso parere favorevole al disegno di legge nazionale che prevede la modifica dello Statuto speciale della Regione Siciliana per l’introduzione della figura del deputato supplente, un passaggio istituzionale di grande rilievo che apre la strada a una riforma attesa da anni.
“Abbiamo approvato in Aula, nonostante il voto segreto – che qualcuno ha definito “voto di libertà” – una proposta che il Parlamento regionale ha condiviso nella sua piena autonomia – dichiara Michele Mancuso, deputato di Forza Italia e presidente della Commissione Statuto –. Mi onoro di presiedere questa Commissione, dalla quale è partita l’iniziativa che ha condotto a questo importante traguardo. È un segnale di maturità istituzionale e di grande responsabilità politica. Il provvedimento adesso proseguirà il suo iter presso Camera e Senato, che saranno chiamati a deliberare definitivamente sulla modifica dello Statuto per introdurre la figura del deputato supplente anche per la Regione Siciliana”.
Il parlamentare nisseno ha poi sottolineato l’importanza del sostegno istituzionale:
“Sono fiducioso nell’impegno del Presidente della Regione, Renato Schifani, che ringrazio per la costante attenzione e il contributo determinante. Confido che nei mesi che restano di legislatura si possa giungere all’approvazione definitiva, così da consentire al Parlamento siciliano di definire le disposizioni normative e lo status economico del nuovo ruolo”.
Mancuso evidenzia inoltre il valore concreto che la riforma potrà avere per i territori più piccoli: “È una grande opportunità per tutti, ma in particolare per le province minori, come Caltanissetta, Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani, che contano un numero ridotto di deputati. Garantire la presenza continuativa di un rappresentante supplente – conclude – significa dare più voce, rappresentanza e stabilità all’attività parlamentare e al governo della nostra Regione”.
QDS
Rottamazione, Irpef e bonus su prima casa: le misure della Manovra 2026
Meloni, Salvini e Tajani avrebbero discusso ieri sera a Palazzo Chigi sulle singole misure da inserire nella manovra in vista del Consiglio dei Ministri del 13 ottobre
Sono ore di discussioni e riunioni per quanto riguarda la Manovra finanziaria 2026, misura più importante dell’anno e che tiene banco tra i leader del centrodestro, riuniti ieri a Palazzo Chigi per mettere a punto l’impianto della legge di bilancio. Meloni, Salvini e Tajani, secondo fonti parlamentari, avrebbero discusso sulle singole misure da inserire nella manovra in vista del Consiglio dei Ministri del 13 ottobre come la rottamazione, bonus sulla prima casa, Irpef e pensioni. La base di partenza è di 16 miliardi indicati nel documento di programmazione finanziaria pubblica.
Rottamazione e bonus prima casa
Sulla rottamazione il Ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti ha risposto che “ci stiamo lavorando, pensiamo si possa dare un’ultima chance, ma il tema del bastone e della carota si impone: non possiamo immaginare rottamazioni infinite per i meritevoli e gli immeritevoli”, così nelle repliche durante l’audizione sul Dpfp.
Quanto alle abitazioni, “il nostro intendimento è quello di prorogare le detrazioni del 50% in modo selettivo sulla prima casa in modo particolare”, ha spiegato Giorgetti.
Banche e pensioni
Poi gli istituti di credito. “Abbiamo intenzione di chiedere, naturalmente in modo concertato, alle banche un contributo”, ha affermato Giorgetti, osservando che anche le banche hanno beneficiato del rialzo del rating. “Non ci sarà nessun istinto punitivo”, ha aggiunto.
Sull’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita “ci sarà, io userei questo termine, una sterilizzazione selettiva“. “Penso che non ci sono quelli più fortunati o quelli meno fortunati ma quelli meritevoli e quelli meno – ha puntualizzato il ministro leghista- i lavori usuranti o i precoci devono avere un trattamento diverso”.
La rassicurazione di Giorgetti: “Non toglieremo fondi alla sanità per le spese di difesa”
Il ministro Giorgetti ha confermato che “c’è la volontà del governo di integrare ulteriormente il già cospicuo aumento del fondo per la sanità”. Le risorse andranno “alla riduzione delle liste di attesa e a dare un premio alle professioni sanitarie in difficoltà di reclutamento”, ha spiegato.
Quanto alle spese per la difesa, “non abbiamo intenzione di finanziare la difesa togliendo risorse ad altre voci di spesa, tantomeno al sociale – ha sottolineato – Noi attiveremo la deroga a condizione che la procedura di infrazione sarà superata”.
“Non si può chiedere all’Italia, che sta rispettando fin troppo rispetto ad altri le regole, di aumentare le tasse o tagliare la sanità per finanziare le spesa della difesa – ha scandito – le spese per la difesa le faremo con la deroga che ci consente l’Europa. Non chiedetemi perché l’Ue permette la deroga sulla difesa e non la sanità: così è”.
Il Pil dell’Italia
Davanti alle commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato, il ministro dell’Economia ha tenuto a sottolineare che “la sostenibilità della finanza pubblica regola la condotta di questo esecutivo”.
“Per la seconda metà dell’anno in corso, le previsioni più aggiornate indicano una lieve accelerazione della crescita congiunturale del Pil”, ha detto Giorgetti in audizione. “Tuttavia – ha aggiunto – tenendo conto dell’andamento delle variabili esogene internazionali, condizionate dal nuovo contesto macroeconomico internazionale, la stima di crescita annuale è stata prudenzialmente rivista al ribasso di 0,1 punti percentuali rispetto alla precedente stima di aprile, attestandosi ora allo 0,5 per cento (0,6 per cento nella media dei dati trimestrali). D’altra parte, l’esperienza ci ha mostrato che le stime iniziali sono spesso soggette a revisioni e che negli ultimi anni sono state sistematicamente riviste al rialzo”.
La previsione di crescita tendenziale per il 2026, pari allo 0,7 per cento, ha spiegato, “si basa sul contributo della domanda interna, che beneficerà di una più elevata crescita dei consumi, anche sulla scorta del buon andamento dell’occupazione e delle retribuzioni reali. Un contributo positivo sarà inoltre fornito dagli investimenti, previsti leggermente al rialzo. Le esportazioni nette avranno ancora un impatto negativo, peggiore rispetto alle stime precedenti per effetto della prevista frenata della domanda mondiale e dell’apprezzamento dell’euro”.
Il taglio dell’Irpef
In mattinata, all’Assemblea Assonime, Giorgetti aveva spiegato che “l’intervento sull’Irpef rafforzerà ulteriormente la riduzione, già strutturale a partire da quest’anno, dell’onere fiscale sui redditi dal lavoro medio-bassi, con un effetto di stimolo della domanda interna”. Inoltre, “sul lato dell’offerta la manovra assicurerà la continuità della spesa per investimenti oltre la conclusione del Pnrr, a partire dal potenziamento degli strumenti per l’incremento della produttività”, ha aggiunto il ministro dell’Economia.
LENTEPUBBLICA
Licenziamenti illegittimi nel pubblico impiego: Consulta chiarisce calcolo risarcimenti
Con la sentenza n. 144 del 2025, la Corte costituzionale ha posto fine a un importante dibattito sul criterio di calcolo dell’indennità risarcitoria spettante ai dipendenti pubblici licenziati illegittimamente e poi reintegrati.
Dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trento, confermando la correttezza dell’attuale disciplina e respingendo l’ipotesi di una disparità di trattamento tra lavoratori in regime di trattamento di fine servizio (TFS) e coloro soggetti al trattamento di fine rapporto (TFR).
La controversia nasce dal dubbio interpretativo relativo all’articolo 63, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nella versione modificata dal decreto n. 75 del 2017, che regola le tutele dei dipendenti pubblici contrattualizzati. La norma prevede che, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, al lavoratore sia riconosciuta, oltre alla reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, fino a un massimo di ventiquattro mensilità.
Secondo il Tribunale di Trento, tale formulazione avrebbe potuto violare il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, poiché non tutti i dipendenti pubblici rientrano nel regime del TFR. Una parte del personale, in particolare coloro assunti prima del 1° gennaio 2001 che non hanno esercitato l’opzione di passaggio al nuovo sistema, continua infatti a essere soggetta al vecchio regime dell’indennità premio di servizio (IPS), regolato dalla legge n. 152 del 1968.
Secondo il giudice rimettente, per evitare trattamenti economici differenti a parità di situazioni, il parametro per calcolare l’indennità avrebbe dovuto riferirsi non al TFR in astratto, ma all’emolumento di fine rapporto effettivamente spettante al lavoratore (TFR o IPS). Infatti, poiché la base retributiva per il calcolo dell’IPS è più ristretta rispetto a quella prevista per il TFR, il risarcimento per chi rientra nel primo regime risulterebbe inevitabilmente più basso.
L’orientamento della Corte costituzionale
La Corte costituzionale non ha accolto questa tesi, ritenendo errato il presupposto da cui muoveva il giudice del lavoro. Secondo i giudici della Consulta, il riferimento al TFR contenuto nell’articolo 63 deve essere inteso non come un rinvio concreto all’emolumento spettante, bensì come parametro astratto per uniformare il calcolo dell’indennità in tutti i casi di licenziamento illegittimo.
L’obiettivo perseguito dal legislatore nel 2017 – ha ricordato la Corte – era proprio quello di armonizzare la disciplina delle tutele dei lavoratori pubblici contrattualizzati, evitando disparità e incertezze applicative. Con la riforma, il Governo ha voluto delineare un modello unitario di risarcimento, indipendente dal tipo di regime previdenziale in cui ricade il dipendente. La mancata opzione per il passaggio dal TFS al TFR, dunque, non può incidere sul calcolo dell’indennità, poiché riguarda la fase fisiologica di chiusura del rapporto di lavoro, e non la fase patologica rappresentata dal licenziamento illegittimo.
Il risarcimento riconosciuto in tali casi ha infatti natura forfettaria: serve a compensare il danno derivante dall’estromissione illegittima, senza richiedere al lavoratore di dimostrare l’effettivo pregiudizio subito. La misura massima resta fissata in ventiquattro mensilità di retribuzione, con la sola detrazione delle somme eventualmente percepite nel periodo di allontanamento per altre attività lavorative.
L’evoluzione normativa: dal “caso Fornero” al d.lgs. 75/2017
Per comprendere la portata della decisione, la Consulta ha ripercorso l’evoluzione legislativa che ha interessato la materia dei licenziamenti nel pubblico impiego. Dopo la riforma Fornero del 2012, che aveva introdotto nel settore privato una distinzione tra tutele reintegratorie e puramente economiche, si era posto il dubbio se tali modifiche valessero anche per i dipendenti pubblici.
Un primo orientamento giurisprudenziale favorevole all’applicazione della nuova disciplina fu successivamente superato dalla Cassazione, che riaffermò la piena vigenza del regime reintegratorio tradizionale per i lavoratori pubblici. Tale posizione trovò poi conferma in una serie di sentenze che, in attesa di un intervento legislativo, sancirono la coesistenza di due sistemi: tutela reale per il pubblico impiego e tutela modulata per il settore privato.
Il decreto legislativo n. 75 del 2017 è intervenuto proprio per colmare questo vuoto, introducendo nel Testo Unico sul Pubblico Impiego un regime specifico per i licenziamenti illegittimi. Il legislatore ha voluto così superare le incertezze interpretative, prevedendo un meccanismo unico di tutela che combina la reintegrazione del lavoratore con un risarcimento economico standardizzato.
In questo senso, la norma del 2017 si distingue sia dalla “reintegrazione attenuata” prevista per i lavoratori privati dal nuovo articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, sia dalla “reintegrazione piena” antecedente alla riforma Fornero. Essa rappresenta un modello autonomo, applicabile a tutti i dipendenti pubblici contrattualizzati, indipendentemente dal livello professionale o dalle dimensioni dell’amministrazione datrice di lavoro.
IPS e TFR: due regimi a confronto
Nella parte centrale della pronuncia, la Corte costituzionale dedica ampio spazio alla distinzione tra indennità premio di servizio (IPS) e trattamento di fine rapporto (TFR), chiarendo che si tratta di istituti diversi, accomunati solo dalla loro funzione di liquidazione economica alla cessazione del rapporto.
L’IPS è un’eredità del vecchio sistema di impiego pubblico, destinata ai dipendenti degli enti locali, delle regioni e del servizio sanitario nazionale assunti prima della riforma del 2001. È calcolata sulla base dello stipendio, degli scatti periodici, della tredicesima e di eventuali assegni in natura, secondo criteri rigidamente stabiliti dalla legge del 1968. La giurisprudenza, in più occasioni, ha ribadito il carattere tassativo di questi elementi, escludendo qualsiasi ampliamento della base contributiva.
Il TFR, al contrario, rappresenta l’istituto di riferimento per i rapporti di lavoro di diritto privato (e per quelli pubblici “privatizzati”). Il suo calcolo, regolato dall’articolo 2120 del codice civile, si fonda su una nozione onnicomprensiva di retribuzione, includendo tutti i compensi continuativi legati al rapporto di lavoro, salvo quelli occasionali o rimborsuali.
Dopo la riforma previdenziale del 1995, il legislatore ha previsto un sistema “duale”: i lavoratori assunti dopo il 2001 sono automaticamente soggetti al TFR, mentre quelli in servizio da prima possono scegliere se mantenere il TFS o optare per il nuovo regime. Tale facoltà, ancora oggi esercitabile, è stata prorogata fino al 31 dicembre 2025.
La Corte ha tuttavia sottolineato che tale differenza, frutto della gradualità con cui il legislatore ha voluto accompagnare il passaggio dal sistema pubblicistico a quello privatistico, non viola il principio di eguaglianza, poiché deriva da scelte discrezionali coerenti con criteri di ragionevolezza e proporzionalità.
Un parametro uniforme per garantire equità
Alla luce di questo quadro, la Consulta ha ribadito che la scelta di utilizzare la retribuzione di riferimento del TFR come parametro uniforme di calcolo non crea alcuna discriminazione. Si tratta infatti di una base astratta e neutrale, adottata per garantire parità di trattamento e semplificare l’applicazione della norma.
Il risarcimento previsto dall’articolo 63 del decreto n. 165/2001, come modificato nel 2017, rappresenta una misura standardizzata e indipendente dal regime previdenziale del singolo lavoratore. In altre parole, ciò che conta non è quale trattamento di fine rapporto spetti concretamente al dipendente, ma la necessità di disporre di un criterio unico per quantificare l’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo.
La Corte ha dunque respinto la tesi del Tribunale di Trento, affermando che l’interpretazione prospettata avrebbe finito per introdurre un’ingiustificata differenziazione, contraria proprio al principio di uguaglianza invocato.
La decisione finale
Concludendo, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 63, comma 2, terzo periodo, del decreto legislativo n. 165/2001, come modificato nel 2017. L’indennità risarcitoria per il lavoratore pubblico illegittimamente licenziato resta dunque commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, a prescindere dal regime di appartenenza (IPS o TFR).
La pronuncia, oltre a confermare la coerenza del sistema, ribadisce l’intento del legislatore di assicurare uniformità e certezza del diritto nel trattamento dei dipendenti pubblici. Una decisione che chiude un lungo dibattito interpretativo e rafforza l’idea di un modello unitario di tutela, volto a bilanciare la reintegrazione effettiva con un risarcimento equo e predeterminato.
LENTEPUBBLICA.IT
Management strategico nella PA: pianificazione e responsabilità contrattuale alla luce del Codice Appalti
Un approfondimento, a cura del Dottor Luca Leccisotti, sul management strategico nella pubblica amministrazione (PA): focus valore pubblico, pianificazione e responsabilità contrattuale alla luce del Codice Appalti (D.lgs. 36/2023).
L’evoluzione del quadro normativo in materia di contratti pubblici, culminata con l’entrata in vigore del D.lgs. 36/2023, ha evidenziato la centralità della figura del manager pubblico quale soggetto deputato a coniugare efficienza gestionale, rispetto dei vincoli procedimentali e perseguimento del valore pubblico. La riflessione dottrinale e giurisprudenziale ha, infatti, progressivamente riconosciuto che la mera osservanza formale delle procedure di affidamento non è sufficiente a garantire la sostenibilità e la legittimità dell’azione amministrativa.
Il presente contributo analizza le peculiarità gestionali e strategiche che caratterizzano il manager pubblico, in una prospettiva giuridico-amministrativa orientata alla creazione di valore pubblico, evidenziando il ruolo della pianificazione, della misurazione delle performance e dell’accountability nei processi di affidamento e gestione dei contratti pubblici.
L’azienda pubblica come sistema aperto: presupposti giuridico-organizzativi
Il concetto di azienda pubblica come sistema aperto, coerente internamente e finalizzato alla produzione di valore pubblico, trova una chiara trasposizione nel Codice dei contratti, che pone le amministrazioni aggiudicatrici dinanzi alla sfida di integrare le dimensioni interna (efficienza) ed esterna (efficacia).
L’art. 1 del D.lgs. 36/2023 richiama espressamente i principi di risultato, fiducia e accesso al mercato: tre dimensioni che impongono una gestione consapevole delle risorse e delle procedure, ancorata a una strategia di lungo periodo, coerente con i valori costituzionali di buon andamento ed economicità (art. 97 Cost.).
Il valore pubblico come parametro giuridico e strategico
La nozione di valore pubblico non può ridursi a un mero indicatore economico, bensì si configura come un parametro composito che abbraccia:
la capacità della PA di rispondere ai bisogni collettivi;
la tutela dei diritti fondamentali e la generazione di capitale sociale;
la rigenerazione della fiducia tra istituzioni e cittadini.
Il D.lgs. 36/2023 traduce questa finalità in strumenti concreti, quali
le clausole sociali e ambientali (art. 57);
il principio di proporzionalità (art. 10);
gli strumenti di monitoraggio e trasparenza (art. 38 ss.).
Il manager pubblico, nella sua funzione di responsabile del procedimento e di gestore strategico, deve quindi valutare le ricadute sistemiche degli affidamenti, operando un bilanciamento tra interessi individuali e collettivi.
Pianificazione strategica e appalti pubblici: il ruolo del manager pubblico
L’art. 21 del D.lgs. 36/2023 prevede l’obbligo di programmazione triennale degli acquisti di lavori, servizi e forniture, come espressione di una pianificazione strategica orientata al raggiungimento di obiettivi misurabili.
Il manager pubblico è chiamato a:
definire la missione dell’amministrazione in termini di servizio pubblico;
identificare gli stakeholder e mappare i loro bisogni e aspettative;
predisporre piani d’azione coerenti con le risorse disponibili;
misurare l’efficacia e l’efficienza delle decisioni adottate.
In questa prospettiva, le macrostrategie definiscono le politiche pubbliche di sistema e le microstrategie le concretizzano, declinandole nella dimensione aziendale.
Le specificità gestionali del manager pubblico nel sistema contrattuale
Eterogeneità e assenza del prezzo di mercato
Il manager pubblico opera in un contesto caratterizzato da:
eterogeneità delle funzioni amministrative;
assenza di un prezzo esplicito dei beni e servizi erogati;
debolezza dei meccanismi di domanda-offerta.
Ciò implica l’adozione di strumenti alternativi di misurazione del valore, quali gli indicatori di outcome, la rendicontazione sociale e i report di sostenibilità.
Formalizzazione e tempi istituzionali
L’attività amministrativa, essendo soggetta a vincoli formali e a ritmi condizionati dai cicli elettorali, richiede un elevato grado di trasparenza e documentazione, che tuttavia non deve tradursi in un irrigidimento procedurale incompatibile con i principi di efficienza.
Accountability e controllo dei risultati
Il manager pubblico, alla luce dei principi codificati nel D.lgs. 36/2023, assume la responsabilità di:
garantire la regolarità procedurale degli affidamenti;
assicurare la qualità e la conformità delle prestazioni contrattuali;
rendere conto agli stakeholder dell’uso delle risorse pubbliche.
Gli strumenti giuridici di supporto sono molteplici, tra cui:
i sistemi di monitoraggio previsti dall’ANAC;
la verifica di congruità delle offerte e delle varianti (artt. 60 e 120);
la pianificazione di audit interni e la redazione di carte etiche.
Conclusioni
La funzione del manager pubblico emerge, quindi, come un elemento imprescindibile per la governance dei contratti pubblici in un’ottica sistemica, capace di integrare la dimensione giuridica e quella gestionale.
Il D.lgs. 36/2023, con i suoi principi innovativi, impone al manager pubblico di abbandonare una logica meramente burocratica per abbracciare un modello di management orientato a:
valorizzare le risorse umane e relazionali;
promuovere l’innovazione e la sostenibilità;
garantire trasparenza e partecipazione degli stakeholder.
Solo così la pubblica amministrazione potrà generare valore pubblico e recuperare legittimità democratica, traducendo in pratica il dettato costituzionale di buon andamento e imparzialità.